Lettera ai Filippesi 1:1-30

1  Paolo e Timòteo, schiavi di Cristo Gesù, a tutti i santi uniti a Cristo Gesù che sono a Filippi,+ insieme ai sorveglianti e ai servitori di ministero.+  Possiate avere immeritata bontà e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo.  Ringrazio il mio Dio ogni volta che vi ricordo,  in ogni mia supplica per tutti voi. Offro le mie suppliche con gioia+  a motivo del contributo che voi avete dato alla buona notizia dal primo giorno fino a questo momento.  Sono infatti convinto di questo: colui che ha iniziato in voi un buon lavoro lo porterà a termine+ per il giorno di Cristo Gesù.+  È più che giusto che io pensi questo di tutti voi, perché vi ho nel cuore, voi che siete partecipi con me dell’immeritata bontà sia nelle mie catene+ sia nel difendere e far riconoscere legalmente la buona notizia.+  Dio infatti mi è testimone di quanto io desideri vedervi con lo stesso tenero affetto di Cristo Gesù.  E questo è ciò per cui continuo a pregare, che il vostro amore abbondi sempre più+ di conoscenza accurata+ e pieno discernimento,+ 10  che vi accertiate delle cose più importanti+ in modo da essere puri e da non essere d’ostacolo* agli altri+ fino al giorno di Cristo, 11  e che siate pieni del frutto della giustizia che si ha per mezzo di Gesù Cristo,+ a gloria e lode di Dio. 12  Fratelli, voglio che sappiate che in realtà la mia situazione ha favorito il progresso della buona notizia, 13  tanto che all’intera guardia pretoriana e a tutti gli altri è noto+ che sono in catene+ a motivo di Cristo. 14  La maggioranza dei fratelli nel Signore ha acquistato fiducia grazie alle mie catene e dimostra ancora più coraggio nell’annunciare intrepidamente la parola di Dio.+ 15  È vero che alcuni predicano il Cristo per invidia e rivalità, ma altri lo fanno con buoni sentimenti. 16  Questi ultimi annunciano il Cristo per amore, sapendo che io sono stato incaricato di difendere la buona notizia;+ 17  quelli invece lo fanno per rivalità* e non con un motivo puro, pensando di farmi soffrire mentre sono in catene. 18  Con quale risultato? Che in ogni modo, sia per pretesto che in verità, Cristo viene annunciato. Di questo mi rallegro e continuerò a rallegrarmi, 19  perché so che porterà alla mia salvezza grazie alle vostre suppliche+ e al sostegno dello spirito di Gesù Cristo.+ 20  Ciò è in armonia con la mia ansiosa attesa e la mia speranza di non dovermi vergognare di nulla; spero anzi che, con ogni franchezza da parte mia, ora come sempre, Cristo sarà magnificato per mezzo del mio corpo, sia mediante la vita sia mediante la morte.+ 21  Per me, infatti, vivere è Cristo+ e morire è un guadagno.+ 22  Ora, se devo continuare a vivere nella carne, la mia opera darà questo frutto;* eppure cosa sceglierei non lo dico.* 23  Sono combattuto fra queste due cose: da una parte desidero essere liberato e stare con Cristo,+ che di certo è la cosa migliore;+ 24  dall’altra è più utile per il vostro bene che io rimanga nella carne. 25  Perciò, convinto di questo, so che rimarrò e continuerò a stare con tutti voi perché possiate progredire e provare la gioia che nasce dalla fede,+ 26  così che, quando sarò di nuovo con voi, la vostra esultanza in Cristo Gesù trabocchi a motivo mio. 27  Solo comportatevi in modo degno della buona notizia del Cristo,+ affinché, sia che io venga e vi veda sia che rimanga lontano, io senta dire di voi che rimanete saldi in un solo spirito, con una sola anima,+ combattendo fianco a fianco per la fede della buona notizia 28  senza lasciarvi spaventare dai vostri avversari. Proprio questo per loro è segno evidente di distruzione,+ ma per voi di salvezza.+ E ciò viene da Dio, 29  perché a voi è stato dato il privilegio, per la causa di Cristo, non solo di riporre fede in lui, ma anche di soffrire per lui.+ 30  Infatti state affrontando la stessa lotta che mi avete visto affrontare+ e che, come sapete, sto ancora sostenendo.

Note in calce

O “non fare inciampare”.
O “spirito di contesa”.
O forse “non lo so”.
Cioè la magnificazione di Cristo.

Approfondimenti

Prima lettera ai Corinti A quanto pare intestazioni come questa non facevano parte del testo originale. Antichi manoscritti dimostrano che furono introdotte successivamente, senza dubbio per identificare con facilità le varie lettere. Il codice papiraceo noto come P46 attesta che i copisti avevano l’abitudine di identificare i libri biblici con un titolo. Questo codice, spesso datato intorno al 200, è la più antica collezione disponibile delle lettere di Paolo. Ne contiene nove. All’inizio della prima lettera ispirata che Paolo scrisse ai corinti, questo codice contiene il titolo Pròs Korìnthious A (“Verso [o “A”] Corinti 1”). (Vedi Galleria multimediale, “Prima lettera di Paolo ai Corinti”.) Altri antichi manoscritti, come il codice Vaticano e il codice Sinaitico, datati entrambi al IV secolo, contengono lo stesso titolo, che compare sia all’inizio che alla fine della lettera.

Lettera ai Filippesi A quanto pare intestazioni come questa non facevano parte del testo originale. Antichi manoscritti dimostrano che furono introdotte successivamente, senza dubbio per identificare con facilità i vari libri. (Vedi approfondimento a 1Co titolo e Galleria multimediale, “Lettera di Paolo ai Filippesi”.)

schiavo di Cristo Gesù Il termine greco reso “schiavo” (doùlos) di solito viene usato per riferirsi a individui che erano di proprietà di qualcun altro; spesso si trattava di schiavi che erano stati acquistati (Mt 8:9; 10:24, 25; 13:27). Questo termine viene usato anche in senso figurato per indicare devoti servitori di Dio e di Gesù Cristo (At 2:18; 4:29; Gal 1:10; Ri 19:10). Quando cedette la sua vita come riscatto, Gesù acquistò la vita di tutti i cristiani. Di conseguenza i cristiani non appartengono a sé stessi ma si considerano “schiavi di Cristo” (Ef 6:6; 1Co 6:19, 20; 7:23; Gal 3:13). Per dimostrare sottomissione a Cristo, loro Signore e Padrone, tutti gli scrittori delle lettere ispirate delle Scritture Greche Cristiane indirizzate alle congregazioni si definirono almeno una volta nei loro scritti ‘schiavi di Cristo’ (Ro 1:1; Gal 1:10; Gc 1:1; 2Pt 1:1; Gda 1; Ri 1:1).

santi Spesso le Scritture Greche Cristiane si riferiscono ai fratelli spirituali di Cristo nelle congregazioni come ai “santi” (At 9:13; 26:10; Ro 12:13; 2Co 1:1; 13:13). Il termine designa coloro che vengono introdotti in una speciale relazione con Dio tramite il nuovo patto convalidato con “il sangue di un patto eterno”, il sangue versato da Gesù (Eb 10:29; 13:20). Vengono così santificati, purificati e dichiarati “santi” da Dio. Dio attribuisce loro tale condizione di santità già dal momento in cui vengono scelti come santi sulla terra e non dopo la loro morte. Quindi la Bibbia non autorizza nessun individuo e nessuna organizzazione a proclamare qualcuno “santo”. Pietro dice che devono “essere santi” perché Dio è santo (1Pt 1:15, 16; Le 20:7, 26). Il termine “santi” si applica a tutti coloro che sono uniti a Cristo e sono suoi coeredi. Più di cinque secoli prima che questo termine fosse attribuito a discepoli di Cristo, Dio aveva rivelato che persone definite “i santi del Supremo” avrebbero regnato con Cristo (Da 7:13, 14, 18, 27).

Filippi In origine si chiamava Crenide (Krenides). Verso la metà del IV secolo a.E.V. Filippo II il Macedone (padre di Alessandro Magno) conquistò la città dopo aver sconfitto i traci e le diede il suo nome. Nella zona c’erano ricchi giacimenti d’oro, e furono coniate monete d’oro con il nome di Filippo. Verso il 168 a.E.V. Lucio Emilio Paolo sconfisse Perseo, ultimo re di Macedonia, e conquistò Filippi e la regione circostante. Nel 146 a.E.V. tutta la Macedonia era diventata un’unica provincia romana. La battaglia in cui Ottaviano e Marco Antonio sconfissero gli eserciti di Bruto e Cassio, assassini di Giulio Cesare, ebbe luogo nella pianura di Filippi (nel 42 a.E.V.). In seguito, a ricordo della grande vittoria riportata, Ottaviano elevò Filippi a colonia romana. Quando qualche anno dopo Ottaviano fu insignito dal senato romano del titolo di Cesare Augusto, chiamò la città Colonia Augusta Iulia Philippensis. (Vedi App. B13.)

anziani Nella Bibbia il termine greco presbỳteros è usato soprattutto in riferimento a chi ha una posizione di autorità e di responsabilità all’interno di una comunità o di una nazione. Uomini anziani, o maturi, dal punto di vista spirituale avevano la responsabilità di guidare e amministrare le città dell’antica nazione d’Israele. In modo simile uomini anziani, o maturi, dal punto di vista spirituale prestavano servizio nelle congregazioni cristiane del I secolo. Questo brano relativo all’incontro tra Paolo e gli anziani di Efeso mostra chiaramente che in quella congregazione c’era più di un anziano. Il numero di anziani di ogni congregazione dipendeva dal numero di uomini che erano idonei perché spiritualmente maturi (1Tm 3:1-7; Tit 1:5-8). Quando Paolo scrisse la sua prima lettera a Timoteo, che a quel tempo viveva probabilmente a Efeso, fece menzione di un “corpo degli anziani” (1Tm 1:3; 4:14).

sorveglianti Il termine greco per “sorvegliante”, epìskopos, è affine al verbo episkopèo, che può essere reso “stare attenti” (Eb 12:15), e al sostantivo episkopè, che può essere reso “ispezione” (Lu 19:44, Kingdom Interlinear; 1Pt 2:12), “essere sorvegliante” (1Tm 3:1) o “incarico di sorveglianza” (At 1:20). Quindi epìskopos si riferisce a chi sorveglia i componenti della congregazione facendo visite, ispezionando e provvedendo guida. Un’idea fondamentale insita nel termine greco è quella di sorveglianza protettiva. Nella congregazione cristiana i sorveglianti hanno la responsabilità di curare la condizione spirituale dei loro fratelli. Qui Paolo chiama “sorveglianti” gli “anziani” della congregazione di Efeso (At 20:17). E nella sua lettera a Tito usa il termine “sorvegliante” quando descrive i requisiti degli “anziani” della congregazione cristiana (Tit 1:5, 7). Presbỳteros ed epìskopos si riferiscono quindi allo stesso ruolo: presbỳteros addita la maturità di colui che è nominato tale, mentre epìskopos i doveri attinenti all’incarico. Questo brano relativo all’incontro tra Paolo e gli anziani di Efeso mostra chiaramente che in quella congregazione c’era più di un anziano. Il numero di sorveglianti per ogni singola congregazione non era predeterminato: dipendeva da quanti uomini in una data congregazione erano spiritualmente maturi e quindi idonei come “anziani”. Inoltre, quando scrisse ai cristiani di Filippi, Paolo menzionò i “sorveglianti” locali (Flp 1:1), il che indica che a sorvegliare l’andamento di quella congregazione c’era un corpo composto da più persone. (Vedi approfondimento ad At 1:20.)

Paolo e Timoteo O “da Paolo e Timoteo”. È Paolo lo scrittore della lettera ai Filippesi, ma nei saluti iniziali include Timoteo. Al tempo della prima detenzione di Paolo a Roma, Timoteo era lì con lui. Viene menzionato in altre due lettere che Paolo scrisse da Roma nello stesso periodo, ovvero quella ai Colossesi e quella a Filemone (Col 1:1, 2; Flm 1). Sembra che Timoteo stesso sia stato in prigione a Roma per qualche tempo, fra la stesura della lettera ai Filippesi e quella agli Ebrei (Flp 2:19; Eb 13:23).

schiavi di Cristo Gesù Vedi approfondimento a Ro 1:1.

santi Vedi approfondimento a Ro 1:7.

Filippi Vedi approfondimento ad At 16:12.

sorveglianti Qui Paolo usa il plurale del termine greco epìskopos per indicare quelli che avevano incarichi di responsabilità nella congregazione di Filippi. (Confronta At 20:28.) In un’altra sua lettera menziona il “corpo degli anziani” che aveva affidato a Timoteo un incarico speciale (1Tm 4:14). Dal momento che Paolo non si riferisce a una persona in particolare come se questa fosse l’unico sorvegliante, è chiaro che in quelle congregazioni ce n’era più di uno. Questo ci permette di capire il modo in cui erano organizzate le congregazioni del I secolo. Nelle Scritture Greche Cristiane le parole “sorvegliante” e “anziano” vengono usate scambievolmente, il che vuol dire che indicano lo stesso ruolo (At 20:17, 28; Tit 1:5, 7; confronta 1Pt 5:1, 2). In ogni congregazione il numero dei sorveglianti poteva variare in base a quanti uomini erano idonei, o spiritualmente maturi, per servire come “anziani” (At 14:23; vedi approfondimenti ad At 20:17, 28).

servitori di ministero O “aiutanti”. Il termine greco diàkonos, che letteralmente significa “servitore”, qui viene usato per indicare un incarico ufficiale, quello ricoperto dai “servitori di ministero” nominati all’interno della congregazione cristiana. Ricorre con un significato simile in 1Tm 3:8, 12. Il fatto che Paolo lo utilizzi al plurale lascia intendere che la congregazione aveva un certo numero di questi servitori che assistevano i sorveglianti svolgendo diversi compiti. Invece dei termini “sorveglianti” e “servitori di ministero”, in questo versetto alcune Bibbie usano “vescovi” e “diaconi”, titoli a cui la cristianità ricorre per dare l’impressione che tra i cristiani del I secolo ci fosse una gerarchia. Comunque, quando la traduzione di questi termini trasmette il senso con cui erano stati usati nell’originale, risulta chiaro che nella congregazione cristiana ricoprire incarichi di responsabilità non eleva nessuno al di sopra degli altri. Il traducente “servitori di ministero” mette in evidenza il servizio che questi uomini rendono alla congregazione con tanto impegno.

Possiate avere immeritata bontà e pace Questo è il saluto che Paolo rivolge in 11 delle sue lettere (1Co 1:3; 2Co 1:2; Gal 1:3; Ef 1:2; Flp 1:2; Col 1:2; 1Ts 1:1; 2Ts 1:2; Tit 1:4; Flm 3). Usa un saluto simile nelle sue lettere a Timoteo, ma aggiungendo la qualità della “misericordia” (1Tm 1:2; 2Tm 1:2). Gli studiosi fanno notare che, invece di usare chàirein, la comune formula resa “Saluti!”, Paolo spesso usa chàris, un termine greco dal suono simile, con cui esprime il desiderio che le congregazioni possano godere di “immeritata bontà” in abbondanza. (Vedi approfondimento ad At 15:23.) Il fatto che venga usato il termine “pace” rispecchia la comune formula di saluto ebraica shalòhm. (Vedi approfondimento a Mr 5:34.) A quanto pare, usando l’espressione “immeritata bontà e pace”, Paolo sottolinea il nuovo legame che i cristiani hanno con Geova Dio grazie al riscatto. Nel descrivere da chi provengono immeritata bontà e pace, Paolo menziona Dio nostro Padre separatamente dal Signore Gesù Cristo.

Possiate avere immeritata bontà e pace Vedi approfondimento a Ro 1:7.

immeritata bontà Vedi Glossario.

ebbero terminato la loro supplica O “ebbero terminato la loro fervida preghiera [o “implorazione”]”. Il verbo greco dèomai si riferisce all’azione di rivolgere una preghiera sincera e particolarmente sentita. Il sostantivo affine dèesis (“supplica”) è definito “richiesta umile e sincera”. Nelle Scritture Greche Cristiane il sostantivo è usato esclusivamente in riferimento a invocazioni rivolte a Dio. “Con forti grida e lacrime”, anche Gesù “offrì suppliche e richieste a colui che poteva salvarlo dalla morte” (Eb 5:7). L’uso del plurale “suppliche” indica che Gesù invocò Geova più volte. Ad esempio, nel giardino di Getsemani pregò ripetutamente e con fervore (Mt 26:36-44; Lu 22:32).

preghiere e suppliche accompagnate da ringraziamenti Il sostantivo “preghiera” usato qui è un termine generico con cui si intende il parlare con devozione a Dio. Il sostantivo “supplica” è più specifico; si tratta di una parola molto forte che dà l’idea di un’implorazione, spesso accompagnata da intense emozioni e anche lacrime (Eb 5:7). Un’opera di consultazione ne parla come di un “grido d’aiuto che nasce da uno stato di bisogno”. Aggiungendo poi “accompagnate da ringraziamenti”, Paolo dimostra che è sempre giusto esprimere gratitudine a Dio. Anche in momenti di grave difficoltà ci sono motivi per essere grati, e Paolo lo sapeva per esperienza personale (At 16:22-25; Ef 5:19, 20). L’apostolo menziona anche le richieste. Questa categoria, come dice la parola stessa, si concentra sulle cose che si chiedono in preghiera. Le richieste del cristiano, come spiega Paolo, possono abbracciare un’ampia gamma di necessità. (Vedi l’approfondimento in ogni cosa in questo versetto.)

a motivo del contributo che voi avete dato alla buona notizia O “perché avete contribuito a diffondere la buona notizia”. È possibile che tra le altre cose Paolo abbia avuto in mente l’occasione in cui Lidia si era battezzata insieme alla sua casa e, dimostrando ospitalità, aveva insistito perché Paolo e i suoi compagni d’opera si fermassero da lei (At 16:14, 15).

immeritata bontà Vedi Glossario.

nelle mie catene È probabile che Paolo sia stato in prigione più spesso di tutti gli altri apostoli. (Confronta 2Co 11:23.) Circa 10 anni prima della stesura di questa lettera, era stato per brevissimo tempo in prigione a Filippi (At 16:22-24). Quando la scrisse, invece, era agli arresti domiciliari a Roma. Costantemente sorvegliato da un soldato, era in attesa del processo davanti a Cesare (At 25:11, 12; 28:30, 31). I filippesi, rendendosi conto che Paolo aveva bisogno di aiuto visto che era in catene, gli mandarono dei doni attraverso Epafrodito. Durante il periodo che passò con Paolo, Epafrodito lo aiutò anche in altri modi, rischiando addirittura la propria vita (Flp 2:25, 30; 4:18).

difendere La parola greca qui usata (apologìa) spesso si riferisce a una difesa in tribunale (At 22:1; 25:16). Gesù aveva predetto che i suoi discepoli sarebbero stati consegnati “ai tribunali”, aggiungendo: “Per causa mia sarete portati davanti a governatori e re, così che sia resa testimonianza a loro e alle nazioni” (Mt 10:17, 18). Quando fu arrestato a seguito dell’opposizione degli ebrei di Gerusalemme, Paolo fu portato a Cesarea dal governatore romano (At 23:23-35). L’appello “a Cesare” che presentò lì gli aprì la strada per fare una difesa della sua fede davanti alla più alta corte dell’impero (At 25:11, 12). La Bibbia non dice se Paolo comparve veramente davanti all’imperatore Nerone o a uno dei suoi rappresentanti. Al momento della stesura della lettera ai Filippesi, Paolo era a Roma in attesa di essere processato dopo l’appello che aveva presentato (At 28:17-20).

far riconoscere legalmente la buona notizia Il termine greco reso “far riconoscere legalmente”, che ha un’accezione legale, qui si riferisce al promuovere attivamente la buona notizia ricorrendo alla legge. Quando 10 anni prima della stesura di questa lettera era a Filippi, Paolo si era avvalso della legge romana perché fosse riconosciuto il diritto di predicare la buona notizia (At 16:35-40). Durante il suo ministero si impegnò per far valere il diritto di predicare liberamente la buona notizia del Regno di Dio nell’impero romano. Un’opera di consultazione afferma: “Paolo fu un testimone non solo in prigione ma anche in tribunale”.

conoscenza accurata Nelle Scritture Greche Cristiane ci sono due termini comunemente tradotti “conoscenza”: gnòsis ed epìgnosis. Entrambi derivano dal verbo ginòsko (“conoscere”, “comprendere”). Epìgnosis, il termine usato qui, è una forma intensiva di gnòsis (epì letteralmente significa “sopra” ma in questo caso trasmette l’idea di “ulteriore”, “aggiuntivo”). Spesso epìgnosis significa, come risulta dal contesto, “conoscenza piena, autentica o esatta”. Qui Paolo lo usa per mostrare che lo zelo dei suoi connazionali, gli ebrei, era rivolto nella direzione sbagliata. Non si fondava su una corretta comprensione della volontà di Dio rivelata tramite Gesù, il promesso Messia.

conoscenza accurata Qui Paolo collega l’amore per Dio e per i compagni di fede alla “conoscenza accurata” di Dio e al “discernimento” della sua volontà. Per come vengono usati nelle Scritture, i termini greci per “conoscere” e “conoscenza” spesso trasmettono il significato di “conoscere per esperienza diretta”. (Per una trattazione del termine greco qui reso “conoscenza accurata”, vedi approfondimenti a Ro 10:2; Ef 4:13.)

pieno discernimento La parola greca qui resa “discernimento” (lett. “percezione mediante i sensi”) compare solo in questo versetto. Un termine affine è usato in Eb 5:14 quando si menzionano “coloro che con l’uso hanno allenato la propria facoltà di giudizio [o “le proprie facoltà percettive”; lett. “gli organi di senso”] a distinguere il bene dal male”. Nella Bibbia questi termini vengono usati in riferimento al discernimento necessario in questioni morali e spirituali. Paolo pregava che l’amore dei cristiani di Filippi potesse abbondare di questo tipo di discernimento affinché fossero in grado di distinguere quello che era più importante da quello che non lo era dal punto di vista di Dio (Flp 1:10). Il senso morale del cristiano gli permette di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato non solo in questioni chiaramente definite, ma anche in situazioni complesse in cui la cosa giusta da fare non è così evidente. In questo modo il cristiano riesce a prendere buone decisioni che gli consentono di mantenere la sua amicizia con Geova.

accurata conoscenza Nelle Scritture Greche Cristiane ci sono due termini comunemente tradotti “conoscenza”: gnòsis ed epìgnosis. Epìgnosis, il termine usato qui, è una forma intensiva di gnòsis (epì letteralmente significa “sopra” ma in questo caso trasmette l’idea di “ulteriore”, “aggiuntivo”). In base al contesto può significare “conoscenza piena, autentica o esatta”. (Vedi approfondimento a Ro 10:2.) Qui Paolo lo usa per mostrare che il cristiano maturo deve raggiungere, non individualmente ma unitamente ai suoi compagni di fede, una conoscenza piena del Figlio di Dio, Cristo Gesù (1Co 1:24, 30; Ef 3:18; Col 2:2, 3; 2Pt 1:8; 2:20).

guardia pretoriana Durante la sua prima detenzione a Roma (59-61 ca.), “fu permesso a Paolo di restare per conto suo con il soldato che lo sorvegliava” (At 28:16). Mentre era agli arresti domiciliari Paolo scrisse che “all’intera guardia pretoriana [era] noto che [era] in catene a motivo di Cristo”. La guardia pretoriana era un corpo speciale di soldati romani composto da qualche migliaio di uomini. Il termine greco usato qui deriva dal latino praetorium, che in origine si riferiva al posto (una tenda o un edificio) in cui risiedeva un comandante dell’esercito romano. A partire da Cesare Augusto, i pretoriani diventarono le guardie del corpo dell’imperatore romano, motivo per il quale il termine greco usato qui in Flp 1:13 in alcune Bibbie è tradotto “guardia imperiale” o “guardia del palazzo”. Il loro ruolo richiedeva che fossero di stanza vicino all’imperatore e alla sua famiglia.

alcuni predicano il Cristo per invidia e rivalità Alcuni servivano Dio mossi dai motivi sbagliati. Fra queste persone probabilmente c’erano certi ebrei convertiti al cristianesimo che si erano allontanati dal puro insegnamento trasmesso tramite l’apostolo Paolo. Il loro interesse principale non era glorificare Dio ma mettersi in mostra e promuovere le proprie idee (Gal 6:12, 13). Invidiavano la fama, l’autorità e l’ascendente di Paolo, e per questo cercavano di screditarlo (Flp 1:17). Ciò nonostante, lui continuava a rallegrarsi perché vedeva che Cristo veniva annunciato (Flp 1:18).

ma altri lo fanno con buoni sentimenti I cristiani sinceri predicavano il messaggio relativo al Cristo con buoni sentimenti, ovvero mossi da motivi puri. Inoltre mostravano buoni sentimenti verso i rappresentanti di Cristo, incluso Paolo. Di conseguenza Dio provava buoni sentimenti nei loro confronti, cioè mostrava loro favore e li approvava (Sl 106:4; Pr 8:35).

lo spirito di Gesù Evidentemente l’espressione si riferisce allo spirito santo, o forza attiva, che Gesù aveva “ricevuto dal Padre” (At 2:33). In qualità di capo della congregazione cristiana, Gesù usò tale spirito per guidare l’opera di predicazione dei primi cristiani, indicando loro dove concentrare gli sforzi. In questo caso, Gesù usò “lo spirito santo” per impedire a Paolo e ai suoi compagni di viaggio di predicare nella provincia dell’Asia e nella provincia della Bitinia (At 16:6-10). La buona notizia fu comunque estesa a queste regioni in periodi successivi (At 18:18-21; 1Pt 1:1, 2).

mia salvezza O “mia liberazione”. Qui Paolo usa il termine greco soterìa, spesso reso “salvezza”. Dato che Paolo scrisse la lettera ai Filippesi durante la sua prima detenzione a Roma (59-61 ca.), questo termine potrebbe suggerire l’idea che era fiducioso del fatto che grazie alle loro fervide preghiere sarebbe stato liberato. Questo troverebbe conferma in Flp 2:24, dove Paolo esprime il desiderio di tornare a trovarli, desiderio che si sarebbe concretizzato solo se fosse stato liberato. (Vedi Galleria multimediale, “Viaggi di Paolo successivi al 61 E.V. ca.”.) In questo contesto, comunque, il termine soterìa potrebbe anche essere inteso come un riferimento alla sua salvezza eterna.

spirito di Gesù Cristo L’espressione sembra riferirsi all’uso da parte di Gesù dello spirito santo di Dio, ovvero la sua potenza in azione o forza attiva. In At 2:33 si legge che Gesù ha “ricevuto dal Padre lo spirito santo promesso”. In Flp 1:11 Paolo pregò che i cristiani fossero “pieni del frutto della giustizia che si ha per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”. Da quando Gesù è stato risuscitato ed è asceso al cielo, Dio si è avvalso di lui per sopperire ai bisogni dei cristiani sulla terra. In Gv 14:26 Gesù disse: “Il Padre manderà [lo spirito santo] nel mio nome”, e in Gv 15:26 aggiunse: “Quando sarà arrivato il soccorritore che vi manderò da parte del Padre, lo spirito della verità, [...] quello renderà testimonianza riguardo a me”. (Vedi approfondimento ad At 16:7.)

franchezza Il termine greco parresìa significa fondamentalmente “coraggio nel parlare”. In pratica Paolo dice ai corinti di essere nella condizione di parlare loro con grande libertà di parola. (Vedi approfondimento ad At 28:31.)

franchezza O “libertà di parola”. (Vedi approfondimento a 2Co 7:4.)

vivere è Cristo e morire è un guadagno Qui Paolo contrappone la sua vita e la sua morte. Se fosse rimasto vivo, avrebbe potuto usare la sua vita per servire Dio e i suoi compagni di fede, ma se fosse morto fedele, avrebbe ottenuto come guadagno la vita immortale in cielo (2Tm 4:6-8).

Sono combattuto fra queste due cose Mentre era agli arresti domiciliari, in attesa del processo davanti a Cesare, Paolo si sentiva diviso: da un lato desiderava rimanere in vita per continuare a servire i suoi fratelli, dall’altro desiderava morire quale fedele servitore di Dio (2Tm 4:7, 8). Non dice quale delle due possibilità avrebbe scelto (Flp 1:22). Dice però qual era “la cosa migliore”: “essere liberato e stare con Cristo”. Sapeva che rimanere fedele fino alla morte era l’unico modo per avere la garanzia della ricompensa celeste durante la presenza di Cristo (Ri 2:10).

essere liberato A quanto pare la liberazione a cui Paolo si riferisce è la sua morte. Nella seconda lettera a Timoteo, scritta intorno al 65, compare un termine greco affine quando, parlando della sua morte, Paolo dice: “Il tempo della mia liberazione è imminente” (2Tm 4:6). L’espressione “essere liberato e stare con Cristo” sembra parallela a quella usata in 2Co 5:8, dove si legge: “Preferiremmo essere lontani dal corpo e dimorare presso il Signore”. Per Paolo morire fedele equivaleva a “essere liberato”, perché gli avrebbe offerto la possibilità di essere in seguito risuscitato nel “Regno celeste” di Cristo (2Tm 4:18). Come spiegò in 1Co 15:23, “quelli che appartengono al Cristo” sarebbero stati risuscitati in cielo “durante la [futura] presenza” di Cristo. Quindi Paolo qui esprime il desiderio di terminare fedelmente la sua vita terrena per poter poi essere risuscitato in cielo. Paolo non è l’unico a usare il concetto di liberazione con questa accezione: altri autori greci lo usarono come eufemismo per indicare la morte.

presenza Il termine greco parousìa (reso “venuta” in molte traduzioni bibliche) significa letteralmente “l’essere presso”, “l’esserci”. Si riferisce a una presenza che si protrae per un periodo di tempo, e non a un semplice arrivo, una “venuta”. Questo significato di parousìa emerge da Mt 24:37-39, dove la “presenza del Figlio dell’uomo” è paragonata ai “giorni di Noè [...] prima del diluvio”. Inoltre, il termine parousìa è usato in Flp 2:12, dove Paolo contrappone il periodo in cui era “presente” al periodo in cui era “lontano”, o assente.

presente [...] lontano Lett. “nella presenza [...] nell’assenza”. Qui Paolo contrappone due termini greci, parousìa e apousìa: il primo per descrivere un periodo di tempo in cui era lì presente con i cristiani a Filippi, e il secondo per descrivere un periodo di tempo in cui era assente, ovvero non era con loro, era lontano. Questo ci permette di capire meglio il senso del termine parousìa. In vari casi è usato in relazione alla presenza invisibile di Gesù Cristo, cominciata quando fu intronizzato in cielo quale Re messianico, all’inizio degli ultimi giorni di questo sistema di cose. (Vedi approfondimenti a Mt 24:3; 1Co 15:23; Flp 1:26.)

presenza Qui Paolo usa il termine greco parousìa in riferimento a tre suoi compagni d’opera che erano fisicamente con lui. Il termine ricorre con un significato simile altre cinque volte nelle Scritture Greche Cristiane (2Co 7:6, 7; 10:10; Flp 1:26; 2:12). In altre circostanze è usato in relazione alla presenza invisibile di Gesù Cristo (Mt 24:3; 1Co 15:23). Che una parousìa, o “presenza”, possa essere invisibile è indicato dallo storico ebreo Giuseppe Flavio. Scrivendo in greco, Giuseppe Flavio parla della parousìa di Dio al monte Sinai; quella fu una presenza invisibile resa evidente dai tuoni e dai lampi (Antichità giudaiche, III, 80 [v, 2]). Paolo usa un verbo affine (pàreimi) che significa “essere presente”, “esserci”, quando dice di essere “presente in spirito” ma “assente con il corpo” (1Co 5:3). Anche se molte traduzioni rendono parousìa con “arrivo” o “venuta”, la resa “presenza” è confermata dall’uso che ne fa Paolo in Flp 2:12. Lì utilizza parousìa in riferimento al periodo in cui era “presente”, in contrapposizione al periodo in cui era “lontano”, o assente. (Vedi approfondimento a 1Co 15:23.)

quando sarò di nuovo con voi In questa espressione, che si potrebbe anche rendere “mediante la mia presenza di nuovo con voi”, in greco compare il sostantivo parousìa, che letteralmente significa “l’essere presso”, “l’esserci”. Qui Paolo lo usa esprimendo la sua speranza di tornare a trovare i fratelli di Filippi. Spesso parousìa è reso “presenza”, specialmente in relazione alla presenza invisibile di Gesù Cristo (Mt 24:37; 1Co 15:23). Questa accezione è confermata dall’uso che Paolo fa di parousìa in Flp 2:12 (vedi approfondimento), dove contrappone il periodo in cui era “presente” al periodo in cui era “lontano”, o assente. (Vedi approfondimenti a Mt 24:3; 1Co 16:17.)

aveva un solo cuore e una sola anima Questa espressione descrive l’unità e la sintonia che regnavano nella moltitudine di quelli che erano diventati credenti. In Flp 1:27 l’espressione “con una sola anima” potrebbe anche essere resa “con un unico obiettivo” o “come un sol uomo”. Nelle Scritture Ebraiche l’espressione “un solo cuore” è usata in 1Cr 12:38, nt., e 2Cr 30:12, nt., per denotare unità d’intenti e d’azione. Inoltre, i termini “cuore” e “anima” sono spesso menzionati insieme per indicare la persona interiore nella sua totalità (De 4:29; 6:5; 10:12; 11:13; 26:16; 30:2, 6, 10). L’espressione greca che compare qui in At 4:32 è usata in modo simile e potrebbe essere resa “[tra loro c’era] piena unanimità di pensiero e di obiettivi”. Questo era in armonia con la preghiera in cui Gesù chiese che i suoi discepoli fossero uniti nonostante le loro diversità (Gv 17:21).

La nostra cittadinanza La città di Filippi era una colonia romana, e questo garantiva ai suoi abitanti molti privilegi. (Vedi approfondimenti ad At 16:12, 21.) Alcuni componenti della congregazione locale forse avevano una qualche forma di cittadinanza romana, cosa che all’epoca era tenuta in gran conto. La distinzione tra chi era cittadino e chi non lo era rappresentava una questione di una certa rilevanza. Qui però Paolo si riferisce a una cittadinanza di gran lunga superiore, quella nei cieli (Ef 2:19), ed esorta i cristiani unti a concentrarsi non sulle cose terrene (Flp 3:19) ma sulla loro vita futura quali cittadini dei cieli. (Vedi approfondimento a Flp 1:27.)

ho agito O “ho vissuto la mia vita”. Il verbo greco qui presente (politèuomai) potrebbe essere reso “comportarsi da cittadino” (Kingdom Interlinear). Paolo intende dire che ha agito in modo corretto, come un buon cittadino che segue le leggi del proprio paese. Dato che la cittadinanza romana era tenuta in gran conto e comportava sia responsabilità che privilegi, i cittadini romani generalmente prendevano parte attiva alla vita politica o alla vita pubblica (At 22:25-30). Può darsi che, quando in questa occasione parlò di come aveva “agito” davanti a Dio, Paolo sottintendesse dire che era principalmente cittadino del Regno di Dio (Flp 3:20). Lo stesso verbo è usato in Flp 1:27; nt.

comportatevi O “comportatevi da cittadini”. Il verbo greco che Paolo usa qui è affine ai termini per “cittadinanza” (Flp 3:20) e “cittadino” (At 21:39). Dato che la cittadinanza romana era tenuta in gran conto e comportava sia responsabilità che privilegi, i cittadini romani generalmente prendevano parte attiva alla vita politica o alla vita pubblica (At 22:25-30). Quindi, quando consiglia di comportarsi in modo degno della buona notizia del Cristo, Paolo trasmette l’idea di partecipare alle attività cristiane, specialmente alla predicazione della buona notizia. Visto che gli abitanti di Filippi avevano ricevuto da Roma una forma di cittadinanza, i destinatari di questa lettera capivano bene il concetto di partecipazione attiva. (Vedi approfondimenti ad At 23:1; Flp 3:20.)

con una sola anima O “unanimi”, “come un sol uomo”. (Vedi approfondimento ad At 4:32.)

Galleria multimediale

Lettera di Paolo ai Filippesi
Lettera di Paolo ai Filippesi

Nell’immagine si vede un foglio del codice papiraceo noto come P46, che si ritiene risalga al 200 circa. Questo codice è una raccolta di nove delle lettere di Paolo, ma l’ordine in cui vi compaiono non è quello delle Bibbie moderne. (Vedi Galleria multimediale, “Prima lettera di Paolo ai Corinti” e “Seconda lettera di Paolo ai Corinti”.) Questo foglio contiene la parte finale della lettera ai Galati e l’inizio della lettera ai cristiani della città di Filippi. Fa parte del papiro Chester Beatty 2, conservato presso la Chester Beatty Library a Dublino, in Irlanda. Nell’immagine è evidenziato il titolo, dove si legge “Verso [o “A”] Filippesi”. Questa collezione papiracea dimostra che i copisti adottarono molto presto l’abitudine di identificare i libri biblici con un titolo.

Introduzione video al libro di Filippesi
Introduzione video al libro di Filippesi
Paolo in catene durante gli arresti domiciliari
Paolo in catene durante gli arresti domiciliari

Durante la sua prima detenzione a Roma, a Paolo fu concesso di vivere sotto sorveglianza in una casa presa in affitto (At 28:16, 30). Le guardie romane di solito limitavano i movimenti dei prigionieri con delle catene. Spesso il polso destro del prigioniero era legato a quello sinistro della guardia, che così aveva la mano destra libera. In gran parte delle lettere ispirate che scrisse durante gli arresti domiciliari a Roma, Paolo fece riferimento alle sue catene e alla sua prigionia (Ef 3:1; 4:1; 6:20; Flp 1:7, 13, 14, 17; Col 4:3, 18; Flm 1, 9, 10, 13).

La guardia pretoriana
La guardia pretoriana

Di solito i pretoriani indossavano una tunica (1) e a volte un mantello (2). Questo tipo di abbigliamento concedeva loro libertà nei movimenti. Anche se la tunica era piuttosto comune — infatti era indossata da romani, da non romani e da schiavi — i soldati si identificavano facilmente per via delle armi, dei calzari e della cintura che portavano quando erano in servizio. Ogni volta che si trovavano all’interno dei confini della città di Roma e che prestavano servizio come guardia del corpo dell’imperatore, i pretoriani indossavano un diverso capo d’abbigliamento, ovvero la toga (3). La toga era l’abito maschile tradizionale dei cittadini romani.